Giovedì 8 novembre, siamo stati accolti a Milano, all’hotel Sina The Gray, in piazza Duomo, da Stéphane Brizé e Vincent Lindon, rispettivamente regista e attore protagonista di In Guerra. Entrambi si sono mostrati estremamente disponibili con la stampa che presenziava la loro intervista, arrivando anche a confezionare un simpatico siparietto con una delle giornalisti presenti. Notando una straordinaria somiglianza con Karine De Mirbeck, che in La legge del mercato (film presentato sempre da Brizé e Lindon nel 2015 al Festival di Cannes, ndr) interpreta la moglie del protagonista, la immortala fotografandola con il suo smartphone, sorpreso e divertito dalla situazione.

Il film, che uscirà in Italia il 5 novembre, racconta la storia della chiusura di una fabbrica francese, che rischia di lasciare sul lastrico ben 1100 operai della zona, che si oppongono quindi con forza alla decisione dell’azienda. Il film parla dunque di lotta sindacale, ma in realtà tratta molto più di questo. La pellicola di Brizè regala infatti allo spettatore un equilibrato e maturo sguardo d’insieme sulla situazione economico-sociale francese e, in generale, europea, ponendo forti interrogativi di cui parliamo nella nostra recensione.

Stéphane Brizé Vincent Lindon cinematown.it

Nel vostro film la chiusura di una fabbrica viene utilizzata come specchio della crisi della società di oggi. Come mai, come è nato questo film?

BRIZÉ: “Non si tratta solo del bisogno di raccontare la chiusura di una fabbrica, non sarebbe stato sufficiente farne un film. L’anomalia, l’assurdità della situazione è che la fabbrica è in attivo, produce utili e reddito per tutti, ma questo incredibilmente non è basta. E il punto è che questa realtà la vediamo ogni giorno, sia dal vivo che in televisione. Solo che poi quando vediamo i manifestanti nei loro accessi di violenza, questi vengono additati per la loro intemperanza. Da parte mia c’è stata la volontà di capire come mai ci troviamo in una situazione così assurda e folle per cui il lavoro che produce un profitto non è sufficiente, per cui si smantella il lavoro affinchè il profitto sia ancora più elevato. L’1% della popolazione mondiale possiede il 99% della ricchezza e anche di più, a discapito della possibilità di altri di riuscire a sopravvivere e lavorare. Sembra che non ci possa essere un limite”.

LINDON: “La follia di questo mondo ingiusto è che noi ci stizziamo quando sentiamo la sirena di un’ambulanza che va a soccorrere qualcuno, ci infastidisce. Quando la polizia dice che la strada è bloccata perché c’è una manifestazione sbuffiamo perché non possiamo passare da quella parte. In altre parole, siamo tutti bravi a schierarci in un certo modo, ma la follia del nostro mondo individualista è che la condizione essenziale è che non si infastidisca il nostro orticello”.

Stéphane Brizé Vincent Lindon cinematown.it

Come vi siete preparati al film? Come si sono svolte le riprese, vista anche la scelta di utilizzare molti attori non professionisti?

BRIZÉ: “Prima ancora di concepire la struttura drammaturgica di una sceneggiatura svolgo una serie di interviste. Questo perché l’esigenza è di gettare luce sulla realtà, quindi comincio parlando con gli operai, con gli avvocati che li difendono, con i quadri dirigenziali e i loro avvocati, i sindacalisti e i politici, apprendo le loro motivazioni e argomentazioni, così come il gergo che utilizzano. In questo modo riesco a costruire la struttura della storia con il massimo di onestà che risponde alla mia esigenza di fare cinema.

Per me è essenziale mostrare le motivazioni di tutte le parti con onestà e sincerità, demandando allo spettatore la responsabilità di capire dove sta l’anomalia del sistema in cui viviamo. La mia è quindi una costante preoccupazione di verità che mi spinge anche a cercare le persone giuste per interpretare i personaggi, perché alla fine di questo parliamo. Al termine, dopo un lungo processo di selezione di attori non professionisti, penso che Lindon sia la persona più giusta per aggiungere un’ulteriore verità, che possa infondere autenticità che altri attori non possono dare, altrimenti sceglierei qualcun altro. È l’opportunismo che mi guida.

E se lo circondo di persone che non sanno nulla di recitazione, ma che sanno molto, per il loro vissuto, della lotta di cui tratta il film sicuramente verità si aggiungerà a verità. Ciascuno di loro davanti alla macchina da presa alimenta il film a suo modo. Il lavoro di casting è stato immenso, ci abbiamo messo molto a trovare le persone giuste. Lavorare con attori non professionisti non preclude però in nessun modo la veridicità della pellicola, ma anzi la moltiplica. Ed è proprio la ricerca della verità lo scopo di Lindon, che rispetta autenticità del personaggio e non lo stravolge né lo modifica”.

LINDON: “Sarò breve, è come se Stephane avesse riciclato Vincent in Laurent Amedeo, personaggio con cui condivido molti punti. Uno di questi è la rabbia, che non è soltanto quella del personaggio ma anche la mia collera personale, che è scatenata da altre cose che ruotano intorno al mio mondo. Ovviamente ero meno coinvolto di lui perché semplicemente non lavoro in fabbrica, quella è una realtà che non è la mia, ma ho attinto alle mie rabbie per dare vita al personaggio. Me ne restano ancora diverse per interpretarne degli altri, e sono motivi di rabbia che sono gli stessi di Stephane. Quindi è come se io fossi uno strumento che viene portato davanti alla macchina per dare sfogo all’ira, che è la sua e quella di tanti. E quando lavoro con Stephane sono più che mai attore, se con attore intendiamo colui che è in grado di esprimere sentimenti e reazioni per conto di chi non riesce a mostrarle. Questo è il fardello che voglio portare nel mio mestiere e ritengo sia questa la mia funzione. Da questo punto di vista sono stato in totale comunione con questo personaggio”.

Stéphane Brizé Vincent Lindon cinematown.it

Nel film Lindon interpreta un sindacalista che sceglie di non mediare, di non accettare l’accordo fino alle estreme conseguenze. Secondo voi è giusto questo, restare così duri e puri?

BRIZÉ: “Di quale compromesso parla? Qui si parla di una fabbrica che chiude dall’oggi al domani con 1100 persone messe alla porta perché il loro lavoro viene delocalizzato. Viene offerta loro un’elemosina a condizione che tacciano e non hanno più possibilità di trovare lavoro, perché nella regione in cui vivono non ce n’è, e questo nonostante due anni prima avessero siglato accordi in cui accettavano di lavorare più ore a fronte di uno stipendio invariato. Di fatto, questa è una dichiarazione di guerra da parte dei dirigenti dell’azienda, perché è inaccettabile. È come dire ai lavoratori “ammazzatevi”, non hanno nessuna possibilità di scampo se non lottare per legittimare il loro diritto ad avere un lavoro. Il problema è che vivono però in un paese in cui la lotta è vana, perché lo stato ha proclamato leggi (votate de destra e sinistra, da molti decenni a questa parte) che fanno sì che si trovino in una posizione di debolezza e non possano fare altro che ricorrere a elemosina e sussidi per sopravvivere. Quindi il loro “no” è nei confronti della normalizzazione di questa situazione ormai comune. L’oltranzismo duro e puro l’hanno gli altri, perché sono loro a decidere che qualcuno deve morire, sacrificato sull’altare del guadagno. Non sono certo i lavoratori a farlo”.

LINDON: “Lavora per un giornale. Mettiamo che chiuda il giornale, la lascino a casa e non le diano nulla. Può succedere dall’oggi al domani ad ognuno di noi, e non c’è alcuna difesa che ci protegga. Per poter continuare, vincere, non bisogna aver paura di perdere e bisogna andare a fondo nelle cose. Se faccio scarpetta la faccio inzuppando il rosso dell’uovo nel pane con le mani, non uso la forchetta in modo elegante. Se mangio lo faccio fino in fondo. Lotto non tutte le mie forze, poi magari mi menano e sono costretto a ritirarmi, ma non bisogna rinunciare in partenza. Anche perché parliamo di 1100 persone con famiglia e figli. Quindi parliamo di molte più persone, in una realtà di 15000 abitanti che muore, di fatto. Perchè non hanno più un potere d’acquisto, non potendo lavorare. Come se uno tsunami avesse colpito il paese, e loro vogliono lottare fino in fondo, senza lasciare nulla di intentato. Come quando la mafia ti punta una pistola alla testa. Non ti arrendi, perchè tanto sai che ti uccideranno lo stesso, cos’hai da perdere?”

BRIZÉ: “Inoltre, loro perdono ma sono convinti di poter vincere. Siamo noi, spettatori e regista, a sapere che non potranno mai farcela. Il film mostra proprio questo, l’impossibilità di vittoria, la disparità della lotta, loro non la spunteranno mai”.

Stéphane Brizé Vincent Lindon cinematown.it

Curioso il fatto che abbia fatto La legge del mercato e poi Una vita, film molto diversi tra loro. Questo rientra in un’esigenza artistica? Passare da attualità a qualcosa di più cinematografico.

BRIZÉ: “io credo che in realtà, pur trattandosi di un adattamento letterario Una vita possa essere considerato come il ritratto realistico di una donna che viveva nel 19esimo secolo. Può sembrare una storia vera anche se non ha niente a che vedere con La legge del mercato e In guerra, e si tratta di un’opera letteraria. Invece ritengo che siano 3 protagonisti, 2 uomini e una donna, che hanno legami molto forti tra loro, a prescindere dall’ambiente sociale. L’idea comune è di considerare l’essere umano in modo elevato, e di ritrovarsi invece per vicende di vita ad incontrare esseri umani che di alto hanno poco, e che quindi deludono per quello che costringono loro a subire. Quindi, affrontando in epoche e ambienti diversi, il tema è lo stesso. Anche in termini di regia posso dire che le domande che mi faccio sono le stesse, e le chiavi per la regia di Una vita io le ho avute dopo quanto appreso da La legge del mercato e per fare In guerra da quanto ho appreso facendo Una vita. Quindi tutto è interconnesso e credo, senza voler sembrare presuntuoso, che se qualcuno ha qualcosa da dire, la dice”.

La pellicola parla di Neo liberismo, globalizzazione, ponendo anche un problema culturale. La domanda è: c’è un pubblico per un film di questo tipo?

BRIZÉ: “interessa a chi ha voglia di approfondire la realtà che ci circonda. Io voglio seguire il mio interesse e trasformarlo in un film, è questo che conta”.

LINDON: “Questo film che tratta di un argomento ostico e drammatico per la società francese e non solo, ma secondo me avrà più spettatori di Cafarnao, per fare nomi. In Francia alla fine dell’anno arriverà ad essere in 22esima posizione, un risultato in linea con le aspettative. Perché la gente ha voglia di andare a vedere un film ben fatto che ha buone recensioni, che siano accattivanti e che motivino a vedere il film. Questo è il mio pensiero e quello di Stèphane, che non considera gli spettatori degli imbecilli, come non lo fa Ken Loach. Non è manicheo, per cui non dipinge buoni e cattivi, padroni crudeli e operai, torto e ragione. Al contrario mostra che ognuno ha le sue ragioni, accende i riflettori sulla società in cui viviamo attraverso l’oggetto filmico, che ha una sua capacità di intrattenere e ha tutto quello che riguarda il cinema. Non detta allo spettatore cosa deve pensare o da che parte schierarsi, bensì vuole intrattenere portando allo stesso tempo ad una riflessione, in modo che decida poi da che parte schierarsi attraverso la commozione, il sentimento, l’apprendimento in dettaglio meccanismi che determinano alcune realtà. È questa la differenza tra la pellicola in sé e i reportage televisivi che vengono visti all’interno del film. Anch’essi sono ingiusti per i lavoratori, perchè la vicenda viene condensata in due minuti, si scelgono le immagini più spettacolari, quelle violente, in cui gli operai sono sudati, urlanti, brutti. Noi magari stiamo cenando e sbuffiamo perché non ne possiamo più. Anche questo fa parte della macchinazione, è parte della la realtà del film”.

BRIZÉ: “il punto è che la narrazione deve inchiodare alla sedia il pubblico e permettere di seguire la vicenda e appassionarsi. In questo modo oltre a approfondirla è capace di coinvolgere”.

Stéphane Brizé Vincent Lindon cinematown.it

Alla fine della conferenza stampa siamo riusciti a porre altre domande al regista Stéphane Brizé, che si è dimostrato gentile e molto disponibile.

L’ultima scena è girata in modo piuttosto curioso: viene infatti mostrata attraverso la ripresa di un telefonino. Perché questa scelta?

BRIZÉ: “Rientra tutto nella ricerca di estremo realismo che ho voluto dare al film, così come la scelta di avere attori non professionisti. La telecamera segue Laurent dall’inizio del film, cercando di dare l’impressione che non sia la macchina da presa del regista, bensì mezzi improvvisati. Doveva sembrare qualcosa preso da tutti i giorni, nella convinzione di voler mostrare qualcosa di tipico, e non di straordinario. L’alternativa poteva essere vederlo ripreso nelle telecamere di sicurezza, per esempio“.

Quell’azione eclatante è davvero una soluzione al problema, o è qualcos’altro?

BRIZÉ: “Assolutamente no, non risolve proprio nulla. Piuttosto questo gesto è una resa, atta però a dare speranza alle future generazioni. Una volta visto nascere il nipote,  Laurent capisce che non si deve arrendere, che deve farlo per lui. Non lo fa per salvare l’azienda o i suoi colleghi, non voleva salvare il presente, perché non c’è nulla che si possa fare per chi vive oggi. Piuttosto, serviva a dare una speranza alle future generazioni. Quello che mi chiedo però è: se per salvare il futuro dei nostri figli, dei nostri nipoti, dobbiamo arrivare a questo, che cosa ci resta? È questa la domanda del film, un interrogativo che è sorto prima di tutto dentro di me, e che mi rende davvero molto triste“.

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