
Un recente tweet di Joe Bob Briggs sugli horror realizzati durante gli anni ’70 e ’80 ha dato vita ad un dibattito appassionante sulla saturazione dei messaggi politici nell’ambito dei film di genere contemporanei. Nonostante le affermazioni fuori di logica di Briggs e il trend degli ultimi anni, le suggestioni politiche nei film horror non sono assolutamente nulla di nuovo. Briggs è il conduttore di The Last Drive-In With Joe Bob Briggs su Shudder ed è tenuto in grande considerazione presso i fan dell’horror. Anzi, l’uomo in questione è proprio considerato come una sorta di autorità sull’argomento. La sua carriera di critico di cinema è iniziata durante gli anni ’80. The Last Drive-In è semplicemente il revival del suo show, MonsterVision, trasmesso su TNT dal 1991 al 2000.
Il suo ultimo tweet si riferisce direttamente alla release di Black Christmas, horror natalizio prodotto da Blumhouse, leader del settore durante l’ultimo decennio. Grazie agli eccellenti risultati critici e al box-office di Jordan Peele, alle polemiche relative a The Hunt e all’annuncio del remake de L’uomo invisibile, negli ultimi mesi, Blumhouse è stata al centro dell’attenzione mediatica. Anche Black Christmas ha riscosso parecchia attenzione tra i fan ma in senso negativo. I puristi del genere si sono scagliati contro il film innanzitutto perchè si tratta di un remake e non di un’idea originale; poi a causa della scelta di distribuirlo con rating PG-13; infine, per aver focalizzato l’attenzione su una tematica femminista.
Il dibattito sugli horror politici nel 2019
Purtroppo, i dibattiti sulla politica vanno fortissimo su qualsiasi social network, che sembra annullare ogni capacità riflessiva dell’utente medio per lasciare spazio alle urla silenziosa consentite da Facebook et similia. Il dibattito sulla politica nell’horror americano, invece, si è risvegliato da poco. Risvegliato, per l’appunto, e non nato. Attraverso il suo tweet, Briggs sostiene di preferire il New American Horror a causa della sua attenzione alle storie narrate e del modo in cui evita di cadere nella trappola della politica. Fin dalla sua nascita al cinema, l’horror è stato il genere maggiormente capace di intercettare la sfera della cultura e di rifletterne i tumulti.
Non sorprende, quindi, che i monster movies della Universal fossero collegati a doppio filo alla crisi del ’29 negli Stati Uniti. Nè, tantomeno, che il secondo dopoguerra abbia visto un tracollo dell’horror a favore dello sci-fi, in grado di riflettere ansie collettive legate alla incombente minaccia sovietica piuttosto che paure individuali. La fine degli anni ’60 e il decennio successivo è stato un periodo particolarmente complesso sul versante socio-politico per gli Stati Uniti. La morte di alcuni leader politici di primo piano, l’esperienza traumatica del Vietnam, la summer of love e la fine delle utopie hanno segnato radicalmente l’immaginario americano.
Anche solo affermare che un genere pericoloso come l’horror sia slegato dalla politica è una grossa cazzata. E la dimostrazione è fornita proprio da quei film di cui ha parlato lo stesso Briggs. Il 1968 ha visto uscire al cinema La notte dei morti viventi, firmato da George Romero. Il regista ha detto di aver colto al volo la possibilità politica offerta dalla morte di Martin Luther King per innervare il suo film di una riflessione politica. Senza contare le numerose interpretazioni sociali a cui, nel corso degli anni, il titolo ha dato origine. Nel 1974 è stato distribuito un titolo quale Non aprite quella porta, preceduto, due anni prima, da L’ultima casa a sinistra.
I film di Tobe Hooper e di Wes Craven hanno segnato l’horror americano, dando vita allo slasher-movie e attaccando con veemenza la middle-class borghese. Infine, anche Le colline hanno gli occhi, distribuito nel 1977, contiene numerosi riferimenti al Vietnam e allo scontro tra città e campagne. Per non parlare di Essi Vivono di John Carpenter, racconto sui pericoli relativi alla società consumistica. Insomma, sostenere che l’horror di quegli anni non presentasse riferimenti alla politica e alla realtà sociale ad esso contemporanee vuol dire mistificare la realtà dei fatti.
Black Christmas e il femminismo del genere horror
Il remake di Black Christmas, diretto da Sophia Takal, è stato venduto come un horror femminista. Ma, senza alcun dubbio, non si tratta di una novità relativamente al genere di riferimento. Infatti, l’originale del 1974, diretto da Bob Clark, era dichiaratamente femminista. Il titolo, infatti, seguiva un gruppo di studentesse e non si lasciava mai andare all’exploitation ma poneva l’accento sulla sessualità femminile e sull’indipendenza dei corpi femminili. Roe v. Wade aveva firmato un anno prima per conferire al film ulteriore forza e Jess Bradford abbatteva lo stereotipo della final girl vergine, dal momento che il personaggio era incinta e passava buona parte del racconto a riflettere con il fidanzato su un suo eventuale aborto.
E il titolo non è l’unico horror a porre la sessualità femminile al suo centro. Anche Ginger Snaps e Jennifer’s Body hanno eliminato le figure maschili dalle loro narrazioni. Per non parlare delle tante donne protagoniste costrette a lottare contro uomini oppressori. Su tutti i film, basta ricordare Halloween (il cui ultimo sequel è stato realizzato proprio da Blumhouse). E, prima ancora, si possono citare Psyco, King Kong e Il mostro della laguna. Insomma, come dimostrato, le tematiche politiche, sociali e femministe hanno sempre innervato il genere e i trend recenti continuano a inficiare i pareri di chi sostiene il contrario.
LEGGI ANCHE: Blumhouse Productions e l’horror contemporaneo
Discuti di questo argomento e molto altro nel gruppo Facebook CinemaTown – Cinema e Serie Tv