Checché ne dicano alcuni – anzi, troppi – siamo tutti uguali. Non solo dal punto di vista biologico o umano: lo siamo da un punto di vista spirituale. L’essere umano, essendo senziente, concepisce concetti frustranti quali la perfezione e quindi, drammaticamente, ambisce. È questa spinta, fondata sul desiderio – motore della vita – a spingerci a differenziarci da ciò che abbiamo intorno di meno razionale, seppur più sereno, modificando di conseguenza l’ambiente circostante. La storia della filosofia è colma di riferimenti a questa matrice idealistica e, nella nostra epoca, l’opera che l’ha trattata meglio è sicuramente quella scritta da Francis Scott Fitzgerald, da cui è stato tratto il film da quarantena di oggi.
Il Grande Gatsby, scritto nel 1925 e adattato per il cinema numerose volte, ha raggiunto la sua massima rappresentazione estetica nel 2013, con la trasposizione di Baz Lurhmann con Leonardo DiCaprio protagonista. Disponibile su Prime Video, il film da quarantena tenta di raffigurare quella pregnante sensazione di nulla che pervade la descrizione del lusso e del consumismo che hanno caratterizzato gli anni ’20 americani prima di Wall Street, facendola scorrere lungo il collo di un imbuto che è il personaggio di Gatsby, incarnazione ideale dello spirito del suo tempo.
Nato più misero che povero, l’uomo ha condotto una scalata sociale ed economica spinto da una consapevolezza di grandezza prima e dal chiodo fisso di una ragazza, Daisy, dopo. Ne esce fuori un’analisi delicatissima e amareggiante di un’epoca metaforizzata dall’idea romantica di un amore creato nella mente più che nei ricordi di un’esperienza, diventato unica ambizione di Gatsby che raggiunge l’apice solo per riavere Daisy, per poi smettere immediatamente di desiderarla appena trovata, pur negandolo a sé stesso. Mai libro fu più critico de Il Grande Gatsby, come mai uno scritto riuscì a divenire un cult ancor prima di essere trasposto per il cinema. Un racconto doloroso e glorioso, pur essendo un gigantesco pesce palla illuminato di verde.
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