Quando parliamo di un prodotto distribuito o prodotto dagli Amazon Studios, siamo soventi dire che nei confronti della concorrenza la piattaforma gioca letteralmente sempre in vantaggio. Saremo ridondanti, ma l’evidenza mostrata in questo senso da The report non fa altro che rafforzare questo dato di fatto. Il film di Scott Z. Burns, presentato al Sundance Film Festival 2019, non rispetta solo tutti i dettagli del film indie; li premia infatti con una cura nella scrittura e nel montaggio che non vedevamo dai tempi del The social network di David Fincher.
Analizzando uno scandalo istituzionale di proporzioni sconvolgenti, The report traccia un percorso spazio temporale che grazie alla sorprendente padronanza del montaggio riesce a mantenere una coerenza logica degli eventi, sempre incalzanti, pur riavvolgendo o accelerando il percorso narrativo. Quel che ne esce è un gioiellino di regia e scrittura che ben presto dovremo conservare tra i film di valenza documentaristica, affinché la memoria di quanto accaduto in questa parentesi militare americana non venga dispersa.
Tutta una questione di interpretazione
Ciò su cui si basa l’indagine condotta da Daniel Jones – interpretato da un sempre più inossidabile e virtuoso Adam Driver – è proprio questo, una questione di interpretazione, in termini legali, del concetto di tortura, perpetrata nei prigionieri medio orientali come strumento di tutela della salvaguardia nazionale a seguito dell’11 Settembre. La pratica è infatti severamente punita dall’ordinamento federale degli Stati Uniti, ma nonostante questo, la CIA ha avuto carta bianca per far ciò che preferiva ai prigionieri affinché confessassero qualcosa che in realtà non hanno mai saputo. Centodiciannove detenuti perirono nei campi di prigionia americani sotto il flagello dei metodi – ritenuti scientifici – della CIA, che torturarono e assassinarono prigionieri di guerra sotto la propagandistica idea dell’interrogatorio avanzato, la cui pratica era già stata stabilita ancor prima di avere un singolo detenuto.
La tortura prevede che l’interrogatore intenda causare dolore grave o sofferenza. La legge non specifica il significato del termine “grave”, che come unica definizione ha “sintomi acuti che mettano l’individuo in grave pericolo e difficili da sopportare”.
In sintesi, se il presidente volesse stritolare i testicoli di un bambino per evitare lo schianto di un aereo su territorio americano, non c’è legge o trattato che glielo impedirebbe.
La domanda attorno alla quale ruota The report è questa: come faceva la CIA a sapere di dover torturare i prigionieri ancora prima di averne? Da qui inizia una spasmodica ricerca di documenti, durata più di cinque anni, che hanno condotto al varo dell’emendamento McCaine-Feinstein, il quale ha aggiornato le norme vigenti negli Stati Uniti relative alla concezione delle varie forme di tortura e le loro conseguenti condanne. Il racconto che ne viene fatto in The report è estenuante, senza sosta e impervio, ma viene meravigliosamente strutturato affinché le motivazioni drammatiche interpretate da Driver siano sempre più incalzanti e convincenti. La ricerca di una verità infatti non è la sola spinta che muove la macchina delle indagini.
A tirare le fila dell’inchiesta è una sempre più solida convinzione che la CIA, da istituzione americana quale è, debba mettere nero su bianco un’ammissione di responsabilità, affinché il ricordo delle atrocità commesse da un – all’epoca ignaro – governo americano possano essere mitigate da una capacità di cambiamento tipica della società statunitense, che con l’emendamento ha saputo dire “mai più”. I mezzi utilizzati dalla CIA per divincolarsi dall’indagine sono quelli tipici dei poteri che si ritengono impunibili, che scendono ai compromessi più parziali pur di evitare che un’istituzione come questa possa passare dei guai, solo perché “ha protetto il popolo americano”, sulla base di supposizioni scientifiche mai appurate.
The report è un gioiello da conservare
Per svariati motivi, principalmente storici, e per altri più attinenti alla settima arte. Il modo in cui The report è stato realizzato soddisfa appieno il gusto di chi aspettava un progetto scritto, diretto e interpretato secondo le regole del cinema indipendente, con una struttura narrativa articolata che richiede un maggiore impegno cognitivo per potervi accedere, sebbene una volta arrivati alla fine della matassa tutto è perfettamente delineato. Quel che si affronta nel film è una delle indagini più cruciali della storia americana e la sceneggiatura di Burns – impegnato anche nella scrittura di No time to die – segue le stesse dinamiche procedurali di un lavoro simile, partendo dalla fine, tornando indietro, saltando periodi e mettendo in risalto le conclusioni più salienti.
Negli ultimi sei anni, un team di investigatori ha passato al vaglio più di 6,3 milioni di pagine di documenti della CIA, le cui azioni sono state una macchia sui nostri valori e la nostra storia.
The report mette al centro lo scandalo e i suoi intrighi, coadiuvato dalla forza psicologica del personaggio di Adam Driver, il quale si trova a dover iniziare un percorso di ricerca interminabile che lo condurrà verso una ricerca spasmodica della verità. A sostenerlo e guidarlo nel pericoloso intreccio politico dell’indagine è Annette Bening, nei panni della senatrice Feinstein, che con la sua interpretazione pacata, fredda e acuta fa da collante politico tra le dinamiche di palazzo e quelle professionali di Daniel Jones, il quale arriva ad un passo dalla condanna per violazione dei protocolli di sicurezza della CIA – sfiancata dall’indagine.
Il bilancio di The report pende a favore di un giudizio unanimemente positivo, restituito alla produzione forse proprio per la struttura narrativa del film, che come un’indagine vera e propria proietta il continuum della sceneggiatura in continui salti temporali per trovare dettagli, approfondire personaggi ed elaborare giudizi. Un film che meriterebbe una pubblicizzazione di tutto rispetto, per il modo in cui racconta una vicenda terrificante, come se la pellicola fosse una vera e propria messa agli atti a disposizione di chiunque voglia capire o ricordarsi meglio quanto accaduto in quei campi di prigionia, dove qualsiasi tipo di trattato internazionale, concezione etica e pratica scientifica vennero letteralmente annullati, producendo una lunga sequela di assassinii giustificati da un metodo di interrogatorio che non poteva in alcun modo funzionare.
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Riassunto
The report non solo rispetta tutti i dettagli del film indie, li premia infatti con una cura nella scrittura e nel montaggio che non vedevamo dai tempi del The social network di David Fincher. Analizzando uno scandalo istituzionale di proporzioni sconvolgenti, il film traccia un percorso spazio temporale che grazie alla sorprendente padronanza del montaggio riesce a mantenere una coerenza logica degli eventi, sempre incalzanti, pur riavvolgendo o accelerando il percorso narrativo. Quel che ne esce è un gioiellino di regia e scrittura che ben presto dovremo conservare tra i film di valenza documentaristica, affinché la memoria di quanto accaduto in questa parentesi militare americana non venga dispersa. Il film meriterebbe una pubblicizzazione di tutto rispetto, per il modo in cui racconta una vicenda terrificante, come se la pellicola fosse una vera e propria messa agli atti a disposizione di chiunque voglia capire o ricordarsi meglio quanto accaduto in quei campi di prigionia, dove qualsiasi tipo di trattato internazionale, concezione etica e pratica scientifica vennero letteralmente annullati, producendo una lunga sequela di assassinii giustificati da un metodo di interrogatorio che non poteva in alcun modo funzionare.