
The Umbrella Academy è la serie sci-fi creata da Steve Blackman e Jeremy Slater che ha spopolato su Netflix, basata sull’omonimo fumetto di Gerard Way e Gabriel Bá della Dark Horse Comics, e che – in un modo o nell’altro – ha emozionato numerosi fan, tra chi lo ha apprezzato e non vede l’ora della seconda stagione e chi invece ha notato mancanze e vistosi cambiamenti rispetto al fumetto; tuttavia, non si può dire che la serie non si sia fatta apprezzare con i suoi toni un po’ dark e un’atmosfera contemporaneamente giocosa e umoristica ma anche drammatica e noir.
Tuttavia, se nel complesso lo show si mostra promettente, capace di intrattenere con momenti di tensione alternati a momenti di leggerezza e tenerezza famigliare, i primi episodi fanno fatica a ingranare. Per chi non ha letto il fumetto e non conosce la storia, forse non ha la pazienza di aspettare che la storia entri nel vivo della sua vicenda e tende ad abbandonarla per un po’. La conclusione però ha portato a un hype crescente e una forte aspettativa di ciò che potrà accadere d’ora in avanti, piantando il seme per un buon successo sostitutivo di quelle serie Marvel che tanto brutalmente ci sono state tolte da davanti gli occhi.
The Umbrella Academy: la famiglia Hargreeves
The Umbrella Academy sostanzialmente parla di una famiglia. Sette fratelli con poteri paranormali, adottati da un signore eccentrico e miliardario con leggere tendenze di onnipotenza allo scopo di trasformarli in super-eroi e aiutare la città in caso di crimine. Di questo signor Reginald Hargreeves però non sappiamo niente, se non che è morto e la sua dipartita ha fatto sì che i fratelli, ormai cresciuti e con le loro carriere affermate, si ritrovassero nella vecchia villa in cui vivevano una volta per assistere ai funerali del padre. Una delle prime cose che si nota è la caratterizzazione dei personaggi: ciascuno di loro ha le proprie peculiarità, i propri modi di fare, il proprio modo di rapportarsi col mondo e, soprattutto, i propri segreti (a indicarci che forse tanto eroi non sono).
Sono, sostanzialmente, tutti diversi l’uno dall’altro. Il numero uno, Luther (Tom Hopper), è un po’ come fosse il fratello maggiore (anche se in realtà hanno tutti la stessa età, elemento legato alla peculiarità con cui sono nati), quello responsabile e il più attaccato alla “missione” del padre, che cerca a tutti i costi di essere il leader perché così sente di poter dare un senso alla propria esistenza; il numero due, Diego (David Castaneda), l’unico che sembra aver veramente capito come usare i propri poteri e che pare averli accettati completamente e senza problemi; la numero tre è Alison (Emmy Raver-Lampman), la bella e famosa, ma con una vita che sembra andare avanti senza di lei; il numero quattro, Klaus (Robert Sheehan), il più tormentato tra tutti, che si alterna tra rave-party e droghe per far fronte a un’esistenza che non riesce a sopportare; il numero cinque (Aidan Gallagher) il più strano e intelligente di tutti, e il numero sei, Ben (Justin H. Min), deceduto misteriosamente anni prima.
I personaggi sono perfettamente amalgamati, ma da soli non risultano molto consistenti
C’è anche la numero sette, Vanya (Ellen Page), la pecora nera della famiglia – come ogni famiglia che si rispetti deve averne – quella senza poteri e senza una vera vocazione, motivo per cui veniva esclusa dalle missioni e quindi, anche dalla famiglia. Non c’è da stupirsi se si sente insicura ed estromessa dalla vita in generale, oltre che dai fratelli. Tuttavia, il fatto che siano così fortemente caratterizzati, non li rende stereotipi e nemmeno banali. Dopotutto, sono solo sette persone che hanno avuto la fortuna – o la sfortuna – di nascere in circostanze particolari e misteriose che sono stati messi insieme per una causa che non avevano chiesto, cresciuti in maniera non proprio “etica” e trattati più come “esperimenti”, “numeri” o “oggetti preziosi da collezione e vanto” del signor Hargreeves.
E, come ogni famiglia che non gode proprio di ottimi rapporti e che, dopo diversi anni, si allontana, si ritrovano di nuovo tutti insieme al funerale del padre. Sarà proprio questo evento il motore di tutto quello che avverrà e porterà avanti la storyline. La cosa che però fa un po’ storcere il naso e lascia con l’amaro in bocca, è che, anche se tutti questi personaggi sono stati ben delineati all’interno dei loro difetti e pregi, non si riesce ad avere una visione a tutto tondo della loro vita. Vengono solo lanciati alcuni indizi, elementi, side-stories accennate ma poi lasciate cadere lì. È quasi più facile apprezzarli quando sono tutti insieme, quando collaborano e si contrastano; allora hanno veramente senso. Ma da soli, si ripiegano un po’ su sé stessi e non dicono granché. Non è da attribuire a una brutta scrittura, forse soltanto alla differenza tra la grande quantità di materiale potenzialmente usabile e l’effettivo materiale che viene usato. Una sorta di “studente intelligente che però non si applica abbastanza”.
The Umbrella Academy: i contrasti
La serie ha un certo stile, non glielo si può negare. L’accostamento di colori pastello, di ombre, di luci, quel misto di kitsch e gotico, il tono cromatico che richiama un po’ lo stile del fumetto e l’austeritá di quelle scene che necessitavano un certo tipo di gravità, come la villa degli Hargreeves. Forse, proprio per il porre il focus sulla fotografia ha fatto scivolare di mano a The Umbrella Academy la sceneggiatura.
I colori e lo stile però sono un ulteriore segno di caratterizzazione dei personaggi. L’eccentricità di Klaus, la “severità” di Luther, l’eleganza sobria di Alison, la noncuranza di Vanya (che richiama anche lo stile dell’attrice che la interpreta). Anche nei personaggi secondari il modo di vestire o di accostare colori e stili diventa riflesso del loro modo di fare e di essere. La visualità gioca un ruolo fondamentale nella percezione e nell’immersione dello show, anche se alcuni elementi stranianti ci ricordano che si tratta comunque di una serie fantascientifica dove l’elemento soprannaturale, se prima ci sembrava abbastanza quotidiano, verso la fine si presenta per ciò che è davvero.
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Riassunto
The Umbrella Academy possiede un innegabile stile. L’accostamento di colori pastello, di ombre, di luci, quel misto di kitsch e gotico, il tono cromatico che richiama un po’ lo stile del fumetto e l’austeritá di quelle scene che necessitavano un certo tipo di gravità, come la villa degli Hargreeves. Forse, proprio il suo porre il focus sulla fotografia ha fatto scivolare di mano la sceneggiatura agli addetti ai lavori.