Definire da dimenticare il Pinocchio di Roberto Benigni uscito nel 2002, forse non rende onore all’attore e regista Premio Oscar, ma non si discosta dalla realtà dei fatti. L’esperimento visivo, in cui un Benigni cinquantenne vestiva i panni di un bambino, era di per sé molto piacevole, ma sia in Italia che all’estero gli spettatori non hanno gradito il coraggio del regista. Anche con La tigre e la neve non andò molto bene, nonostante la proiezione speciale al 56esimo Festival di Berlino, ma se c’è un palco dal quale Benigni può riscattarsi, è proprio quello della Berlinale.
Quest’anno il Festival di Berlino segna infatti il ritorno di Roberto Benigni con un altro Pinocchio, quello di Matteo Garrone, ultimo adattamento del libro di Carlo Collodi, dove interpreta un ruolo a lui più adatto del burattino, ovvero il creatore Geppetto. Pinocchio di Garrone continua la recente abitudine dei registi e sceneggiatori di rappresentare in maniera più profonda e cupa le fiabe, e nessuno meglio di Garrone – già autore di ritratti cruenti come Il racconto dei racconti, Gomorra e Dogman – poteva dare al pubblico una versione di Pinocchio fedele al libro.
In questa versione di Pinocchio presentata al Festival di Berlino 2020, la meraviglia per il mondo, la sua innocente cattiveria e la sua vivace curiosità, sono inserite in un contesto scenografico fedele alla povertà popolare dell’Italia del tardo ‘800, dove il bigottismo e i maltrattamenti subiti dal burattino nel libro di Collodi – a tratti davvero troppo crudo e più per adulti che per bambini – si vedono e si sentono con esattezza. Il film potrebbe essere uno dei progetti italiani più apprezzati al Festival di Berlino 2020, nonché un rinnovato esempio della maestria di Garrone che tanto fa luccicare gli occhi ai cineasti americani.
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